BLU NOTTE

Pur conoscendo abbastanza bene Fabrizio Alessandrini come chitarrista (anzi, tolgo l’”abbastanza”) e forse anche come “persona” avendolo intervistato due volte, ancora mi sorprende la sua musica, portandomi a pensare che non potrò mai conoscerlo tanto bene da poter riconoscere in certe sue composizioni le parole dette a voce. Forse questa è la magia della musica: trasmettere più chiaramente cosa si ha dentro davvero, al di là di qualunque comunicazione verbale. Mi sorprende perché certi suoi “panorami interiori” odierni sembrano differenti (senz’altro più raffinati e stilisticamente plus engagées ) eppure concordi in toto con quelli ascoltati in “Piccoli sogni strani” e “Tutti i bambini del mondo”: una “concordia discors” che non appare mai casuale e che non può semplicemente far parte di una dialettica “tecnica” o di una saggezza strumentale indubbiamente profonda ed aumentata nel corso degli anni. Certe “parole” (in senso semiologico) non escono mai a caso, certe “pitture”, certi arrangiamenti e certi solismi di altri (vedi Marco Spedaliere, bravissimo sassofonista guidato, in qualche modo, dall’anima compositiva del Nostro) o fanno parte di noi o non ce li possiamo nemmeno inventare, caso mai copiare, ma si sentirebbe. E di “copie” in “Blu Notte” non ce ne sono… Se di riferimenti stilistici si può parlare, potrò ancora una volta osservare come Fabrizio abbia scelto da tempo un tessuto avvolgente e caldo, new age secondo un modo del tutto personale e da sempre legato alla World Fusion di Pat Metheny: un variegato e brillante red carpet sul quale dar voce alle proprie intuizioni melodiche ed al proprio talento. Ho avuto modo di ascoltare questo album in anteprima e non ho voluto leggere le note di copertina per non essere influenzato nella percezione: ho subito supposto fossero composizioni originali di Alessandrini, in linea estetica con l’Alessandrini che conosco e la cui musica mi è piaciuta fin dal primo istante. Non gli chiederò mai quanta felicità o quanta malinconia possano aver ispirato i pentagrammi, certo è che questi mi sembra parlino chiaramente di lui, della sua generosità di docente e scopritore di talenti (uno su tutti: Francesco Scelzo), della sua diffidenza per il mercato discografico attuale, della sua ricerca di analisi necessaria quando si può temere di lasciarsi completamente andare (nei rapporti umani, non nella musica perché nella musica tutto è più facile). Non trovo ridondanze se non necessarie (“Intorno a me”, ad esempio)a sottolineare ciò che nella sua anima s’agita: repetita iuvant, senza dubbio. Mi piace l’astrattezza che rimanda alla metafisica ECM, mi piace l’intimismo mediterraneo con il quale si narra il Pathos autobiografico (“Petali”), mi piace il senso cromatico del “Blu notte” (questo sì che ci accomuna), l’aria vagabonda e tenue del clima meditativo , i refoli di vento di mare, la crepuscolare declinazione narrativa di “Storia di Piera”, la nitida passione sincera di “Florence”, un “buio luminoso” lirico com’è proprio del modo d’essere di Fabrizio Alessandrini, a mio modesto avviso. E mi piace anche che il disco sia dedicato al grande Mario Monicelli, ed il motivo è facilmente deducibile dopo averlo ascoltato. Magari è così, magari no. Ma questo è quel che mi arriva. E già il fatto che mi arrivi è per me importante. E per questo mi va di dedicare al Notturno in Blu ciò che ho scritto di getto, senza riflettere…un’idiozia dal lato critico, forse, ma piace lasciarsi andare all’immediatezza del “pensiero laterale”, a quell’immediatezza che dà spesso il senso di ciò che si è e che, tutto sommato, ci va di essere.

"Roma in Jazz"

Fabrizio Ciccarelli